“simile alla nuvola estiva che naviga libera nel cielo azzurro da un orizzonte all’altro, portata dal soffio dell’atmosfera, così il pellegrino si abbandona al soffio della vita più vasta, che lo conduce al di là dei più
lontani orizzonti, verso una meta che è già in lui, ma ancora celata alla sua vista.”
(Lama Anagarika Govinda, Le Chemin des nuages blancs)

Terra Rossa - Vietnam

Dieci anni ha impiegato a scrivere il suo “Dispacci”, Michael Herr; quaranta ne ha impiegati Karl Marlantes a pubblicare il suo “Matterhorn”; e altri dieci ne ha impiegati Nick Turse a ricucire gli orrori delle stragi di guerra nel suo libro “Così era il Vietnam”: non sono riuscita a finirlo, ci vuole tutto il fegato e il coraggio per essere indifferenti anche a situazioni non vissute, prerogative che attualmente non ho.
Ha le pagine gialle e consunte il “Niente e così sia” di Oriana Fallaci, riesumato dai miei anni giovanili in cui timidamente mi volgevo alle donne e a una guerra sconosciuta; Anna Moi canta nel suo “L’eco delle risaie”: <<La maestra di canto mi ha detto: ‘Cantare non è una questione di voce, ma di respiro’. Ho respirato con forza ed è sgorgato il do acuto. Una porta si è spalancata all’improvviso e mi ha scagliata dal trampolino di dieci metri nel vuoto, nel terrore, nello stupore, nella vertigine, nella libertà.>>


Scrive Roberto Saviano nella sua introduzione a ‘Dispacci’: “Herr trascina il lettore in guerra. Ma per davvero. Non gli restituisce solo le immagini, ma i comportamenti. Il lettore non sente solo il puzzo del sangue e del napalm, ma sente lui stesso la rabbia e la paura, sente come sarebbe stato feroce, sente come è l'uomo quando per sopravvivere deve smettere di essere uomo.


E’ difficile descrivere una guerra, capirne le radici, spiegarne le strategie, analizzarne la Storia, denunciarne gli orrori, comprenderne il significato.
Mi sono trovata mio malgrado in questo labirinto di incertezza, cosa ci andavo a fare in Vietnam? La risposta più semplice poteva essere: “io viaggio regolarmente, e non sono mai stata ad Est, dicono tutti che è bello”. Ma in cuor mio sapevo dell’enorme menzogna dei miei pensieri consci: forse ci sono andata per capire, per vedere con i miei occhi solo un barlume di ciò che è stato, visitare solo il contesto in cui è avvenuto il girotondo dei numeri, dei vivi, dei morti, dei mutilati, dei vincitori, degli sconfitti, del giusto e dell’ingiusto, della paura e della razionalità, dell’orrore e della speranza, della rassegnazione e della crescita.




Qualunque sia stato il motivo inconscio, la parola Vietnam rievoca la Guerra, con la G maiuscola, quella che non sarà dimenticata, perchè sebbene non più presente, raccoglie il vuoto di generazioni che non ci sono più e non ci potranno essere, e quella che resta è mutilata, dilaniata nel fisico e nella psiche, nella memoria e nella coscienza.

Se si vuole dimenticare, lì non si può: i siti storici oggi sono musei a cielo aperto, lo stesso tragitto di orrore e violenza esiste ancora, silenzioso, nascosto oltre la vegetazione, muto nella crescita, celante la presenza di migliaia di uomini e pensieri, sensazioni, coscienze, vite. Ogni parola scritta sulla G vorrebbe essere infinita, come senza fine è stata la sofferenza, la tristezza, il dolore, la rinascita.



Calpestare le strade di Saigon (oggi Ho Chi Minh) non descrive ciò che si è vissuto per oltre 10 anni, e ancora per altri anni vissuti nel terrore, nel dopoguerra, nei soprusi, nelle torture, nella ricostruzione.
Quello che oggi salta agli occhi è la gioventù, il loro divertimento, la spensieratezza dell’età, non l’amaro e la tristezza del ricordo. Non ci sono anziani in questi quarant’anni trascorsi, solo giovani che si riaffacciano alla vita, al loro tempo: il ricordo lo lasciano nelle stanze storiche colme di parole, di immagini, di figure, di volti sorridenti che diventano cupi, seri, pieni di speranza e poi di cattiveria, straripanti di fatica ma risoluti, silenziosi, come muto è lo sguardo di angoscia senza speranza. Stanze per le coscienze e la conoscenza degli occidentali. A loro, ai vietnamiti, la storia l’hanno tramandata i sopravvissuti, quei pochi, molti, troppi che l’hanno vissuta.


Ho il terrore di entrare nel Museo dei Residuati bellici di Saigon: visi con e senza nome, orrori, cifre, cartine, mutilazioni, armi, paesaggi, nomi di chi non c’è più, tanti, veri, infiniti. Foto che passano alla storia, armamenti che descrivono con la loro potenza tutta la violenza esplosiva che producono, il colore delle mutazioni che passa dal verde all’arancio e poi al nulla e alla deformazione, lo sguardo che si trasforma in tristezza, rassegnazione, infelicità.


 
E fuori, la vita scorre veloce come è precipitata lenta la morte.






Terra rossa, terra di sangue è quella che compone il panorama di Khe Sanh, dove si consumano azioni inutili, ma si colmano le misere colline di attesa, di paura, di morte e di certezze, di piombo e di carne. Sfilano lungo la strada abbozzi di monti impervi sventrati dall’uomo, e forse dai resti dei bombardamenti di quarant’anni fa; qui si sono completate le battaglie più cruente, i combattimenti più incessanti, lo sterminio della vegetazione prima, e della popolazione subito dopo.




Invisibile allo sguardo corre da nord a sud il Sentiero Ho Chi Minh, striscia di terreno interminabile, e rete impenetrabile di vie e giungla, che lega la speranza di una vittoria vietnamita all’amarezza e crudeltà di una sconfitta americana; vegetazione lussureggiante avvolta dalla vacuità del clima, dell’ambiente, nascosta nella silenziosità della crescita delle sue cellule viventi, piena di impalpabili sussurri e movimenti di coloro che nell’amicizia dell’oscurità trascinano via con loro morte e vittoria, atrocità e sconfitta.

Corre rapido il mio occhio a inseguire il presente della storia, nell’urgenza e nella disperazione di non riuscire a collocare quello strazio nel mio altro indicibile patimento, l’incapacità di irretire il passato per dare un senso al presente. Ho timore che non riconoscendo o fissando quei luoghi, la mente si assueferà alla perdita della Memoria, o come scrive Tiziano Terzani nelle sue prime parole di “Pelle di Leopardo”:<<La guerra è una cosa triste, ma ancora più triste è il fatto che ci si fa l’abitudine>>. E prosegue: <<Non si può parlare, scrivere di questa o di un’altra guerra, se non la si va a vedere, se non si è disposti a condividerne i rischi.>>.

Eccola la mia impellenza, il mio rischio allo scoperto, la conoscenza che dovrò trasformare in coscienza, quell’essere conscia di non esserci stata ieri; superare quindi l’insicurezza di non riuscire a capire oggi chi abita in questi luoghi che hanno vissuto il terrore e l’orrore, capire il perchè la popolazione tutta abbia sofferto così tanto per conquistare la sua legittima libertà.



17° parallelo, zona smilitarizzata o DMZ, Cam Lo, Da Nang, Quang Tri.



Scorrono lungo la strada della Storia i numeri delle cime che sviliscono il presente che si sta consumando, altezze minime che danno certezza solo della vittoria o della sconfitta, conquiste inutili dove non c’è nulla da conquistare se non la propria essenza di uomo, solo, contro un altro uomo. Chiamare la collina 881 perchè è alta tanto, o Matterhorn, è solo una sottigliezza di misura: iniquità della quota, o ragguardevole caparbietà dell’impervia conquista sono elementi che non modificano la futilità dell’azione; solo le morti certe e/o probabili faranno la differenza nella conta per la vittoria. Ma i numeri sono altri ed il risultato differente, ciò che resta uguale sono le dirompenti lacrime dei sopravvissuti.


Violento è l’impatto con le migliaia di croci a Truong Son, cimitero della memoria: allineate, circolari, fiorite, le anime di migliaia e migliaia di vietnamiti.
Molte hanno il proprio nome inciso, talvolta sono solo anonime pietre, qualcuno ha riportato le date della vita, mai complete, ma tutte con una statica fierezza hanno scolpita sopra la parola ‘Liet si (martire)’.


E nella solennità di quell’atmosfera grigia e opprimente, un sorriso allarga il viso a ritrovare la speranza di una vita migliore nel mozzicone di una sigaretta, quell’ultima sigaretta che accompagnerà ciascuna di queste migliaia di vittime verso un’altra vita più serena.




Iniziare dagli orrori di una guerra non è facile per descrivere un Paese che invece ha tanto di bello, di sereno, di vitale, e di grandioso, a cominciare dai grattacieli di Ho Chi Minh, per finire al panorama sfuggente sulla cima più alta del Vietnam, il Monte Fansipan, con i suoi 3143 metri svettanti al Buddah e al cielo.




Metabolizzando le atrocità e la morte sono tornata alla vita, cammino ancora più difficile che perdere il respiro, e sono stata contenta di aver ritrovato la capacità di raccogliere un sorriso, di ascoltare parole fiere da parte di una giovane guida sull’antica storia di questo popolo, di riconciliarmi nel silenzio e nella tranquillità della natura, o semplicemente di chiacchierare nella notte con uno sconosciuto mentre lo sferragliare del treno in sottofondo ci accompagna alla scoperta del Paese.







Il mio viaggio in Vietnam è iniziato con un volo, quello della libertà del suo popolo.





§ Matternhorn, Karl Marlantes, 2010, Rizzoli
§ Pelle di leopardo – Giai Pong!La liberazione di Saigon, Tiziano Terzani, 2002, TEA
§ Dispacci, Michael Herr, 1968, Alet Edizioni (oggi Bur Rizzoli)
§ Vietnam. Una sporca bugia, Neil Sheehan, 1988, Piemme
§ Così era il Vietnam.Spara a tutto ciò che si muove, Nick Turse, 2015, Piemme
§ Storia della guerra del Vietnam, Stanley Karnow, 1983, Bur Rizzoli
§ Storia popolare della guerra in Vietnam, Jonathan Neale, 2001, il Saggiatore
§ L’eco delle risaie, Anna Moi, 2001, Edizioni e/o
§ Niente e così sia, Oriana Fallaci, 1969, Rizzoli Libri